Volevo solo cambiare il mondo

Le energie che voglio sono soltanto quelle che mi necessitano per cambiare il mondo

e se lo cambio sto meglio e se sto meglio ho più energia e se ho più energia

posso fare quello che voglio fare: incominciare a essere libera.

 

Gabriella Bertini

 

Ho conosciuto Gabriella Bertini in occasione della lettura del testo teatrale scritto da Giuseppe Della Misericordia e pervenuto alla Giuria della terza edizione del Premio Teatro e Disabilità in cui ero componente. Il concorso, ideato da AVI e ECAD, ha rappresentato negli anni trascorsi, un’opportunità per dare voce al mondo della disabilità non soltanto nei suoi aspetti politico-sociali ma anche nella vita interiore, intessuta di desideri, immagini, ambizioni, individuando nel linguaggio teatrale e nella scrittura drammaturgica un ambito che si predispone a rappresentare la disabilità, capace di evidenziare gli innumerevoli punti di vista.

Il testo giunto tra i finalisti si è aggiudicato il secondo premio che è stato consegnato all’autore in occasione della giornata internazionale delle persone con disabilità lo scorso 3 dicembre a Roma a palazzo Altieri. Le Associazioni promotrici, vista la particolarità dei contenuti del testo ne hanno promosso la messa in scena con uno spettacolo teatrale che ha debuttato il 5 maggio presso il Vittoriano.

Il testo ricostruisce - basandosi su lettere, poesie, scritti autobiografici, documenti d'epoca e testimonianza dirette – alcune delle lotte condotte da Gabriella Bertini, lotte che portarono ad un epocale cambiamento nella qualità della vita e nella percezione sociale delle persone con disabilità in Italia e che influirono sulla legislazione, sull'architettura e sulla medicina.

 

Nata a Dicomano (Firenze) nel 1940, ultima di tre fratelli, a 4 anni rimane orfana del padre, ufficiale di Marina, morto in guerra. A 13 anni, in seguito a trombosi spinale smette di camminare. Per cinque anni rimane segregata in una camera in affitto di una casa al secondo piano senza ascensore. In questo periodo inizia a scrivere poesie, pensieri, lettere, le sembra di essere come uno dei personaggi di Spoon River, chiusa in una tomba ma con una storia da raccontare.

La diagnosi della sua patologia richiede numerose visite in vari luoghi e ospedali, infine è il prof. Adriano Milani Comparetti, pediatra e neurospsichiatra, direttore del centro di riabilitazione per bambini spastici di Villa Torrigiani della C.R.I. di Firenze, fratello di don Lorenzo, a diagnosticare una mielite trasversa. Gabriella dovrà andare a Milano, all’ospedale Niguarda per avere la sua prima carrozzina che le permetterà una maggiore autonomia e compiuti i 18 anni, grazie all’innovativo e pionieristico approccio riabilitativo del prof Milani potrà essere la prima lavoratrice con disabilità in Italia, rivestendo il ruolo di segretaria dello stesso prof. Milani, spezzando finalmente quell’isolamento a cui era stata costretta a causa della malattia.

Nella seconda metà degli anni cinquanta, Adriano Milani Comparetti fu uno dei primi medici ad occuparsi di riabilitazione proponendo metodi di integrazione per i bambini disabili. Portavoce di un concetto nuovo di disabilità riuscì ad ottenere risultati ritenuti all’epoca utopici introducendo criteri interdisciplinari per la valutazione dei bisogni educativi e riabilitativi e sperimentando attraverso il lavoro in équipe la possibilità di creare servizi per far raggiungere pari dignità e inserimento sociale alle persone disabili.

Una visione dell’essere umano che andava oltre le patologie fisiche e privilegiava e favoriva l’opportunità delle relazioni con gli altri, del diritto alla formazione, al lavoro, ad una vita autodeterminata. Uguaglianza, parità e giustizia, questi divennero anche i principi ispiratori delle azioni di Gabriella consapevole che lottare contro le innumerevoli discriminazioni derivanti da barriere architettoniche, servizi inadeguati e spesso segreganti, stigma e pregiudizi riprodotti da retaggi culturali che etichettavano i disabili come rifiuti e pesi per la società, richiedeva di situare la propria condizione personale in una dimensione collettiva dove con altri paraplegici, tetraplegici e spastici sarebbe stato possibile passare dalla richiesta di riconoscimento dei bisogni a quella di rivendicazione dei diritti. Nel 1962 partecipò alle attività del gruppo Spastici Adulti dell’AIAS fiorentina maturando la convinzione che per ottenere risultati concreti andavano costruite alleanze con altri gruppi di persone. La condizione di disabilità doveva essere collocata nella dimensione collettiva politica, i bisogni dei disabili originavano da diritti negati come il diritto al lavoro, alla casa, alle cure adeguate ad una vita indipendente. Giungeva il ‘68 e le richieste sociali di cambiamento riguardarono anche il mondo delle persone con disabilità. Gabriella ad una riunione associativa incontrò Beppe Banchi, un volontario del gruppo spastici che divenne suo marito e compagno nelle lotte che seguirono. Nell’autunno del ’69 insieme ad altri, diedero vita ad una delle prime Case-famiglia, dove co-abitarono alcune persone con disabilità e alcune mamme non residenti in Toscana che necessitavano di un alloggio dovendo far curare i propri figli disabili nell’Istituto del prof. Milani.

Fu un primo esempio di de istituzionalizzazione considerato che in quegli anni chi aveva un’invalidità importante, pur essendo giovane, veniva ricoverato in strutture residenziali quali gli ospizi. Impedire situazioni segreganti e ghettizzanti sarà una delle priorità dell’azione politica di Gabriella così come la lotta per il diritto al lavoro e alla salute. Esemplare la manifestazione a Firenze per l’applicazione della legge 482 sul collocamento obbligatorio culminata con l’occupazione durata alcuni giorni di piazza della Signoria.

Alla fine degli anni ’70 insorgono alcuni problemi per la salute di Gabriella che, accompagnata da Beppe, si reca in Inghilterra dove era risaputo che fin dal’44 Sir Ludwig Guttman, neurologo tedesco emigrato dalla Germania nel ’39 a causa delle persecuzioni razziali antisemite, coordinava a Stoke Mandeville la prima Unità Spinale per curare uomini e donne che avevano riportato lesioni durante la guerra.

Un’azione di resistenza quella di Guttman che, riabilitando persone considerate dai nazisti “indegne di vivere”, contrappose al programma eugenetico di costruzione di un popolo “forte, sano e di razza ariana pura” una prospettiva di vita dignitosa anche per i disabili. Il metodo di Guttman poneva al centro del progetto riabilitativo la persona nella sua dimensione globale, destinataria di interventi clinici correlati alla lesione ma anche di altri sostegni che riguardavano gli aspetti psicologici, affettivi, sociali.

L’Unità Spinale, collegata ad un ospedale generale, era strutturata in vari reparti e garantiva trattamenti adeguati nelle varie fasi cliniche, dall’insorgenza della lesione fino alla riabilitazione ed era caratterizzata da varie attività come la palestra, la piscina, la terapia occupazionale e lo sport, attività tutte orientate a restituire autonomia e relazioni sociali favorite da ambienti sociali comuni come il bar, il teatro, la biblioteca.

Importante era anche l’apprendimento all’uso di ausili, la scuola guida per i veicoli modificati, i tirocini lavorativi, l’adeguamento delle abitazioni con abbattimento delle barriere architettoniche, l’esperienza negli appartamenti pre-dimissioni. Ovviamente tutto il personale sanitario che ruotava intorno al paziente lavorava in èquipe composte da medici, fisioterapisti, infermieri, ergoterapisti, psicologi, assistenti sociali.

Per Gabriella l’esperienza di Stoke Mandeville rappresentò una tappa fondamentale, constatato che, al confronto con l’estero, la situazione italiana era drammatica e non vi erano cure e percorsi riabilitativi adeguati per i paraplegici decise insieme a Beppe di studiare e approfondire i metodi di cura e riabilitazione sperimentati e documentarli sia con cinepresa che in un dossier per avere tutto il materiale utile e poter realizzare anche in Italia analoghi servizi e strutture.

 

Significative sono le parole di Gabriella al suo rientro nel ‘72

 

Tornata dall'Inghilterra dove in quasi un anno e mezzo si era visto tutto quello che sulla riabilitazione e servizi sociali c'era da vedere, si capì che la lotta per ottenere servizi adeguati avrebbe pagato solo se la si abbinava alla conoscenza che in questo campo si era acquisita. Quindi era necessario lottare per avere trasporti pubblici adatti, servizi domiciliari sul territorio, cure qualificate in ospedale, case senza barriere architettoniche, ma anche era indispensabile dire come questi servizi si volevano, indicando anche i tempi e i modi di realizzazione, non dando più deleghe a nessuno. Se ne aveva infatti le palle piene degli specialisti dell'assistenza e beneficenza sia per l'arroganza che avevano nel trattarci sia perché facevano passare per riabilitazione e servizi sociali cose veramente ridicole come la fisioterapia fine a se stessa, separata da tutti gli altri nostri bisogni… In poche parole mi era chiaro che la mia paralisi, come l'invalidità che vivono gli altri, la si poteva vivere con meno fatica, fisica e mentale, se si riusciva con la lotta qualificata dalle conoscenze acquisite, ad imporre alla controparte servizi sociali e sanitari.

 

Nel ’78 dopo impegnative battaglie portate avanti dal Comitato per la riabilitazione da lei creato e da Medicina Democratica di cui è stata una delle fondatrici, viene aperto presso il CTO di Firenze il primo reparto sperimentale per pazienti para-tetraplegici ma si dovrà aspettare il 1988 per vedere finalmente sancito dalla legge regionale toscana n. 45 del 6 giugno l’istituzione dell’Unità spinale con 50 posti letto.

 

Lo scorso 5 maggio al Vittoriano in occasione della celebrazione della IV giornata della Vita Indipendente organizzata dall’Agenzia per la Vita Indipendente di Roma, ECAD, NETFORP con il sostegno di CESV, AP Roma e Lazio e Associazione IL Marguglio e patrocinio di LIDU si è reso omaggio a Gabriella Bertini con lo spettacolo teatrale “ Volevo solo cambiare il mondo” di Giuseppe Della Misericordia e regia di Vittorio Pavoncello con Arianna Ninchi, Laura Formenti, Rita Superbi, scene e costumi Roberta Budicin e aiuto regia Olimpia Ferrara. In una atmosfera fra il sogno e il ricordo la protagonista Gabriella Bertini incontra una giovane donna che sembra conoscere molto bene il suo passato. La situazione singolare si trasforma subito in un gioco di intimità ed estraneità fra le due donne, e Gabriella decide di chiamare Casa la sua giovane amica. Casa diverrà quindi una proiezione mobile di una Gabriella diventata immobile a causa della disabilità sopraggiunta, e la giovane donna sarà anche una specie di assistente che spingendo la carrozzina farà percorrere alla protagonista un viaggio nel tempo a partire dall’Italia degli anni Sessanta fino ai giorni nostri. Gabriella rivivrà, attraverso la giovane amica Casa, le tappe più importanti della sua vita di donna e di donna disabile con un matrimonio e un figlio adottato, insieme alle lotte politiche che condusse per permettere alle persone disabili una vita fiera e non di vergogna. In scena oltre alle due donne c’è un terzo personaggio che suonerà le percussioni giapponesi. La musica delle percussioni giapponesi, con i suoi movimenti da arte marziale, oltre a dare un imponente aspetto coreografico alla scena sarà quasi il ritmo cardiaco della protagonista, seguendo e avvolgendo gioie e amarezze di una intera vita. Al termine dei tanti ricordi Casa mostrerà a Gabriella un ultimo ricordo e Gabriella ritroverà nel libro preferito della sua infanzia: l’Antologia di Spoon River, una chiave della sua vita. Lo spettacolo è stato inserito tra le iniziative della Mostra “Schedati, perseguitati, sterminati. Malati psichici e disabili durante il nazional socialismo” esposta al Vittoriano fino al 14 Maggio a cura di Network Europeo per la Ricerca e la Formazione in Psichiatria Psico-dinamica.

 

 

Silvia Cutrera – presidente Agenzia per la Vita Indipendente onlus – Roma